giovedì 10 settembre 2009

Dozzini intervista Agnelli


la versione ridotta di quest'intervista è stata pubblicata dal "corriere dell'umbria" lunedì 7 settembre. qui c'è qualcosa in più, qualcosa che per qualcuno risulterà stuzzicante, immagino.
saprete dirmi il vostro pensiero al riguardo.


L’ha gridato a Sanremo, l’ha gridato sui palchi d’estate, continuerà a farlo ancora per un bel po’: in questo momento Manuel Agnelli vuole far qualcosa che serva. Sentirsi utile. «Sono un uomo adulto», dice, «voglio avere un ruolo nella società». E andar al Festival, attirandosi addosso gli strali dei critici e dei fan duri e puri, per gli Afterhours deve aver significato esattamente questo: far qualcosa che serva. L’utilità della loro partecipazione andava vista tutta in prospettiva della raccolta a cui la canzone avrebbe fatto da traino. Stesso nome, Il Paese è reale, stesso spirito: diciannove artisti abituati ad abitare il sottobosco musicale italiano a cui offrire un po’ di ribalta.

A distanza di sette mesi dalla loro discussa apparizione nel più grande baraccone delle canzonette lo spirito non cambia. D’altronde il Paese è più reale che mai, la crisi dicono che stia passando, ma la gente non se ne accorge, e non se ne accorgerà ancora per un bel pezzo. Manuel Agnelli ha voglia di parlarne, ha voglia di parlare di un sacco di cose. Del suo Paese e della sua paternità, del suo futuro e della sua band, e persino di quel giorno di luglio di dieci anni fa in cui Michael Stipe gli dedicò una canzone dal palco dello stadio Dall’Ara.


Il tour è quasi finito, ancora una manciata di date fino agli inizi di ottobre e poi si vola in California a portare un po’ di bel canto ai paisà d’Oltreoceano. Ma gli ultimi mesi, per gli Afterhours, sono stati particolarmente intensi. La scelta di andare a Sanremo, loro a cui senza dubbio manca il piglio autoironico di Silvestri o di Elio, gli è costata parecchio in termini di sostegno da parte dei più intransigenti tra gli addetti ai lavori, ma l’obiettivo di far arrivare a più gente possibile il messaggio di disagio e di voglia di darsi da fare per dare il proprio contributo a cambiare in qualche modo le cose forse è stato raggiunto. Se è vero, per esempio, che qualche settimana fa un verso de Il Paese è reale è finito nella striscia rossa della prima pagina dell’Unità. Mica male per dei tizi che non sono mai stati esattamente degli alfieri del combat rock. Loro l’hanno scannerizzata, quella prima pagina, e l’hanno schiaffata nel sito ufficiale. Pure questo gli è valso qualche critica, agli Afterhours


«Perché è il giornale di un partito politico» spiega Agnelli. «Ma non c’entra niente. Per noi è stato fonte di grandissimo orgoglio. Si tratta di un quotidiano nazionale molto importante, ed è un segnale significativo che abbia mostrato quest’attenzione a una canzone. E che in particolare si tratti di una nostra canzone per noi è una grande soddisfazione. Dentro a questo brano c’è tutto lo spaesamento per una situazione, come quella attuale, senza più punti di riferimento, c’è la delusione, la disperazione. Che l’Unità ne abbia ripreso un verso in prima pagina è un’emozione, e un onore».


Il Paese è reale è anche una compilation che raccoglie pezzi di una buona fetta della migliore musica indie italiana d’oggigiorno. In pratica ve li siete caricati sulle spalle, e c’avete messo pure la faccia, andando a Sanremo. Dal Tora! Tora! in poi quest’attenzione per quel che accade intorno a voi, tra gli altri musicisti, è ormai una vostra costante.


«Sì, c’è continuità con quello che abbiamo sempre fatto. Per me fare il musicista è molto importante, alla musica dedicherei tutta la mia vita, ma sono anche un uomo adulto, che vuole avere un ruolo nella società, vuole essere utile. Quelli della nostra generazione hanno tutti iniziato auto-producendosi, facendo grandi sacrifici. Sappiamo come vanno le cose, insomma. E dare il nostro contributo per fare arrivare al pubblico artisti che altrimenti non avrebbero spazio è importante. I media, ormai da tempo, hanno altro a cui pensare. Per noi anche questo è fare cultura. E per questo un po’ di polemica, per attirare l’attenzione, certe volte è salutare. In certi momenti occorre prendere posizione. Può essere rischioso, si può sbagliare, ma bisogna farlo».


Per quanto tempo ti vedremo ancora fare la rockstar sul palco? In altre parole, a settant’anni Agnelli si vede più come un satanasso, come Mick Jagger, o come quel ricercato chansonnier che sembra essere diventato Iggy Pop?


«Ti direi che spero di battere entrambi, a settant’anni, di essere meglio di loro, visto che non lo sono adesso né lo sono stato a vent’anni. Scherzi a parte, dipende da quanto il mio modo di comportarmi mi farà sentire e mi farà percepire grottesco. Vivo la musica con sincerità, la faccio in maniera viscerale. Credo che se a un certo punto non mi sentirò più a mio agio col rock mi metterò a fare cose più intime, che d’altronde mi piacciono molto. È fondamentale fare le cose in cui ci si riconosce, l’atteggiamento viene di conseguenza».


A proposito di intimità. Nel vostro ultimo album, I milanesi ammazzano il sabato, si può riconoscere una sorta di disco nel disco, quasi un concept-album sotto traccia sulla tua paternità. Pare che t’abbia davvero cambiato la vita.


«Sicuramente. E so che si tratta di una cosa talmente personale che è difficile da trasmettere. Chi l’ha vissuta magari capisce quelle canzoni, gli altri faticano. È ovvio che un ventenne, per dire, non ci si può riconoscere. Ma io non posso fare a meno di scrivere di me, o comunque di esprimere il mio punto di vista su gli altri e sulle cose. Ho la fortuna di avere gente che m’ascolta, gente che mi fa domande, e di scrivere canzoni solo quando ho bisogno di farlo. E poi, a quarant’anni, senza voler fare per forza il ribellista cosmico, mi piace l’idea che non tutto quel che faccio venga recepito subito».


Gli Afterhours, oggi, sono solo Agnelli e Prette più altri tre o anche Ciccarelli, Dell’Era e D’Erasmo possono essere considerati membri della band a tutti gli effetti?


«Gli After sono una band con dei ruoli, e questo è inutile negarlo. Se dicono che io sono il leader, sono d’accordo. Sono io quello che spinge di più, quello che l’ha formata. Ma tutti gli altri sono fondamentali. Nessuno ha particolari problemi di ego o di insoddisfazione. Chi se n’è andato (gli ultimi, in ordine di tempo, il “Lombroso” Dario Ciffo e il “Mariposa” Enrico Gabrielli, ndr) forse questi sentimenti li aveva sviluppati nel tempo. Ci sono dei ruoli, insomma, ma siamo una band vera. Il suono di ognuno, la personalità di ognuno, contano tanto. Negli ultimi live puntiamo a costruire una grande tensione, prima ancora che all’esecuzione. Potresti vedere dieci concerti con la stessa scaletta, e sentire dieci concerti diversi. Ogni volta che saliamo sul palco, quel che conta è la tensione che si crea tra noi».


A metà ottobre gli Afterhours sbarcano a Los Angeles insieme a gente come Franco Battiato, Linea 77, Negrita, The Niro e altri ancora. Hit Week Los Angeles: una specie di cantagiro sulla West Coast?


«Spero di no. In realtà si tratta di un progetto molto interessante. La spinta è venuta dalla comunità italiana locale, ma non sarà una manifestazione fatta solo per gli italiani d’America. Quando andiamo negli States noi abbiamo il nostro bel circuito di club in cui suonare, e la cosa funziona. Stavolta abbiamo voluto provare a fare qualcosa di diverso, e quest’idea ci sembrava buona. La nostra speranza è che si riesca a rappresentare la musica per la musica, non un’italianità grezza, in modo un po’ macchiettistico. Non ci interessa essere lì per una questione di bandiera, però essere italiani nella nostra musica conta, è una questione di radici, di cultura, che si sente».


Si chiude con l’amarcord. Perché non a tutti i musicisti di casa nostra è capitato di calpestare lo stesso palcoscenico che pochi minuti dopo sarebbe stato calpestato da gente come Michael Stipe, Peter Buck e Mike Mills. In altre parole, i Rem. A Manuel Agnelli sì. È successo dieci anni fa pressoché esatti. Luglio 1999, stadio Dall’Ara di Bologna, giornata di musica memorabile: Afterhours, Wilco, Suede e Rem tutti in una volta, gli uni dopo gli altri, da metà pomeriggio a notte fonda. Bill Berry se n’era appena andato, e i Rem erano diventati da poco quel “cane a tre gambe” che sono ancora oggi. Dieci anni non sono uno scherzo. Ma Agnelli se lo ricorda bene, quel giorno.


«Ricordo che gli Suede furono molto simpatici, e che il cantante degli Wilco stava male, quasi svenne sul palco. Ricordo che i Rem furono grandiosi. Prima del nostro concerto Mills e Buck entrarono nel nostro camerino portandoci i loro cd, come fossero una band sconosciuta che voleva farsi conoscere. Dovemmo spiegargli che ce li avevamo tutti, i loro dischi, Ciccarelli aveva pure portato qualche vinile da farsi firmare. Poi ascoltarono tutto il nostro concerto da bordo palco, insieme a Anderson e agli Suede: dissero che gli eravamo piaciuti molto. Infine, Stipe, ci dedicò una canzone. Era Gardening at Night, ricordo benissimo. Erano persone alla mano, interessate alla musica degli altri. E ci diedero un grande insegnamento che ci portiamo dietro ancora adesso: si può essere professionali senza essere isterici. Grandiosi».