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giovedì 30 dicembre 2010
Top Ten - I migliori concerti del 2010
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mercoledì 29 dicembre 2010
Intervista a Vinicio Capossela
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Sergio Piazzoli è un uomo indaffarato. E meno male. Non solo perché se non ci fosse lui con la sua Musical Box ad organizzare concerti per tutto l’anno su e giù per l’Umbria noi certa musica dal vivo non sapremmo nemmeno come è fatta. Pare che se Piazzoli non fosse un uomo indaffarato, per esempio, stasera non potremmo sentire un concerto di Vinicio Capossela al Teatro Morlacchi. “L’ho invitato venire a una delle date che faccio sempre sotto Natale, ma lui non poteva. E allora, mi sono detto, vado io a Perugia”, spiega Vinicio.
Forse scherza, forse no. Lui e Piazzoli sono amici da anni. Pochi in meno dei venti esatti trascorsi dall’uscita del primo disco di Capossela, All’una e trentacinque circa. “Sergio è stato uno dei primi promoter a organizzare i miei concerti. Il primo in assoluto fu all’After Bomb di Terni, poi ce ne fu uno alla Sala dei Notari, a Perugia. Da quel momento è nato un rapporto di amicizia, e soprattutto una sorta di complicità nei confronti della musica. Che si basa non tanto sui miei concerti organizzati da lui, quanto su quelli che andiamo a vedere insieme. Per Umbria Jazz, per Rockin’ Umbria, quando capita. E poi m’ha ospitato diverse volte nella sua casa di Perugia, ho avuto modo di conoscere gente e luoghi a cui ormai sono molto legato”.
Però era da tanto che non passavi a suonare da queste parti.
“Già. L’ultima volta è stata nel 2003, c’era ancora il Turreno. Stavolta, poi, l’occasione era imperdibile. Il Morlacchi è splendido. Ricordo che ne fui fulminato quando ci sentii Joao Gilberto, nel ’96. Diciamo che quello di stasera è il coronamento perfetto del mio rapporto con Sergio e con la città. Non a caso il concerto si baserà principalmente sul repertorio dei primi dischi, e anche la formazione è d’annata. Ci saranno Enrico Lazzarini, Mirco Mariani, Giancarlo Bianchetti, Piero Odorici e un grande ospite speciale come Jimmy Villotti, che aveva suonato proprio nel mio primo disco”.
Voltiamo pagina. I tuoi prossimi concerti, dopo Perugia, saranno a Parigi, per San Valentino, e a Londra, il giorno dopo. D’altronde ormai il tuo spessore internazionale è riconosciuto. Cosa cambia, per te, quando suoni all’estero?
“Beh, suonare fuori è sempre un’avventura. Per certi versi sei più libero di rinnovare la tua musica, però c’è la barriera della lingua, non roba da poco. Per questo cerco sempre di impararmi due o tre formule nella lingua del posto per dare al pubblico delle chiavi di lettura. A New York, per esempio, abbiamo suonato la prima volta nel 2007, in un posto che si chiama Joe’s Pub. Fu un vero e proprio spettacolo, non solo musica ma anche tanto entertainment. Quest’anno, invece, abbiamo fatto un tour intero, affittando un tour bus e toccando New York, Toronto, Montreal, Chicago, San Francisco e Losa Angeles. È molto affascinante, anche se non è semplice portarlo avanti nel tempo”.
Dall’America a casa nostra. Lo scorso novembre hai fatto un’apparizione a sorpresa al Mei (il Meeting delle Etichette Indipendenti) di Faenza. Credi che rispetto a vent’anni fa per un giovane emergere sia più complicato o più semplice?
“Al Mei ho cantato tre canzoni al concerto del mio vecchio amico Mirco Mariani. Qualche tempo fa m’aveva proposto di partecipare al suo nuovo progetto, che si chiama Saluti da Saturno. Hanno realizzato questo disco che si intitola Parlare con Anna, dove io canto tre brani. Gli stessi che ho cantato al Mei, per l’appunto. Quanto a chi comincia a suonare oggi, credo che possa sfruttare le grandi opportunità della tecnologia. Produrre musica di buon livello è molto più semplice ed economico di una volta. Allo stesso tempo, le grandi produzioni industriali hanno gli stessi costi elevati di prima, a dispetto del clamoroso calo delle vendite. È una situazione difficile, e difficilissimo è trovare delle soluzioni”.
Ma c’è qualcosa che ti piace, nella scena indipendente italiana?
“Certo. Per esempio Edda, l’ex cantante dei Ritmo Tribale, l’anno scorso ha fatto un bellissimo disco, Semper Biot: m’ha veramente colpito. Poi c’è tutta la nuova leva cantautorale, tipo Brondi o Dente. Ma io sono molto legato ai vecchi. Prendi lo stesso Villotti. O ancora i tanti musicisti con cui collaboro: Alessandro ‘Asso’ Stefana e i suoi Guano Padano, Vincenzo ‘Braccio Elettrico’ Vasi, Zeno De Rossi. E infine mi piacerebbe citare un gruppo di Barcellona. Si chiamano Cabo San Roque. Fanno musica meccanica, costruiscono degli strumenti eccezionali. Qualche tempo fa mi hanno chiesto di cantare un pezzo nel loro disco, una poesia di Verdaguer in catalano, si intitola L’Atlàntida. Così io gli ho chiesto di suonare la loro fantastica orchestra meccanica nel mio nuovo album, che ho appena finito di registrare e uscirà a marzo. In tempi di crisi il baratto tra musicisti va molto di moda”.
lunedì 27 dicembre 2010
Top Ten - I migliori album del 2010
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venerdì 24 dicembre 2010
Top Ten - I migliori romanzi del 2010
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venerdì 3 dicembre 2010
Intervista a Federico Dragogna - Ministri
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Domani sera all’Urban, a meno di due mesi dall’uscita del loro nuovo disco Fuori, arrivano i Ministri. Una carriera fulminante, la loro. Dalla scena indie milanese a piccola icona del rock italiano – di un rock quasi main-stream - in una manciata di anni. Considerando quanto poco tempo è passato dai loro esordi al momento in cui sono stati messi sotto contratto da una major come la Universal, un caso pressoché unico, dalle nostre parti. Federico Dragogna, chitarrista e mente del gruppo, lo sa.
“Il merito è della concorrenza”, dice. “Noi abbiamo sempre creduto moltissimo in quello che facevamo, e ci siamo impegnati al massimo fin dall’inizio per emergere. Ma il guaio è che la situazione del rock italiano è allarmante. Per questo siamo arrivati alla Universal così presto”.
Pare che tu dia per scontato il fatto che essere pubblicati da una major, per una band che viene dall’underground, sia un punto di arrivo. Pensi che non sia possibile fare buone cose anche con label indipendenti?
“In America o in Gran Bretagna esistono molte etichette indipendenti con peso e soldi da investire, con grande talento e capacità. Lì una major può anche non essere necessariamente un punto d’arrivo. In Italia è diverso. Basta pensare che per la legge italiana l’etichetta discografica nemmeno esiste, come soggetto giuridico. Poi, io posso parlare del caso nostro. All’inizio avevamo addirittura fondato una nostra label. Poi, due mesi dopo il primo disco, sono arrivate le proposte della Sony e della Universal. Alla fine abbiamo scelto la Universal e siamo soddisfatti. A loro piaceva il fatto che il nostro principale interesse fossero le canzoni, al di là degli atteggiamenti o delle prese di posizione politiche. A noi è andate bene perché dopo un anno e mezzo di lotta abbiamo ottenuto il contratto che volevamo”.
Cioè?
“Diritto di veto su tutto. Dalle copertine alle foto, dalle pubblicità ai comunicati stampa. E il bello è che questo diritto non siamo mai stati chiamati ad esercitarlo”.
I Ministri sono in piena età da X-Factor. Che ne pensate dei talent-show e di chi ci va?
“Premetto che non possiedo un televisore, per cui il mio è un giudizio senz’altro monco. Detto ciò, di buono c’è che i talent-show possono aver messo il grande pubblico in rapporto con gli aspetti meno superficiali della musica, con quel che c’è dietro a una canzone, con le questioni tecniche. D’altra parte, c’è questo rispetto sempre e comunque dell’autorità degli anziani che non può funzionare. Se formi i ragazzi su musica vecchia, non puoi cavarne molto. Gli autori di riferimento, poi, sono pessimi. È il problema della musica pop italiana, che a differenza di quella inglese o americana non è per niente curata. Io adoro il pop ben fatto, adoro Robbie Williams, i Simply Red, penso che persino Toxic di Britney Spears sia un pezzo da paura. Ma in Italia non c’è cura. Salvo in parte Tiziano Ferro: per il resto ascoltiamo canzoni con basi quasi midi, con testi raffazzonati. È il brutto pop che fa male, non il pop in sé”.
Girando su internet c’è caso di imbattersi in siti che ai fan dei Ministri consigliano di ascoltare anche artisti come Dente, Le luci della centrale elettrica o i Baustelle. Ma secondo te c’entrate davvero qualcosa, con loro?
“Guarda, con Dente e Le luci siamo innanzitutto grandi amici. Andiamo a cena insieme, ci vediamo spesso. In generale, con loro condividiamo un certo modo di vedere le cose. Tutti vogliamo crescere, cantando in italiano, siamo molto ambiziosi…”.
Un momento. Un flash: agosto 2009, Festival del Roccolo, a San Giustino. Sul palco, prima Dente, poi voi. Non erano esattamente parole carine quelle che vi siete detti durante i vostri rispettivi concerti. Siete diventati amici o era una messa in scena?
“Certo che era una messa in scena. Quella sera ci siamo divertiti moltissimo! La gente ci prendeva sul serio, e questo ci divertiva ancora di più. Fantastico”.
Chiudiamo uscendo dal recinto musicale, come non piacerebbe ai tipi della Universal. Ci salireste in cima alla Torre di Pisa in appoggio alle proteste degli universitari contro la riforma Gelmini?
“Ma non siamo abbastanza famosi da poter essere utili. Io credo che ognuno debba cominciare a impegnarsi nel suo piccolo, nel suo territorio. Qua a Milano suoniamo spesso gratis quando si tratta di sostenere cause che riteniamo giuste: al Conchetta, in piazza, dappertutto. In generale ci piacciono i progetti dal basso, per questo abbiamo rifiutato Grillo e altri. I grandi contenitori non servono a nulla, non educano la gente a un rapporto diretto con la realtà. A che serve fare un bonifico a occhi chiusi? Detto questo, le manifestazioni di questi giorni sono sacrosante. Ma anche nelle singole facoltà ci sono tante piccole cose che non vanno. La mia idea è che si dovrebbe partire proprio da lì, impegnarsi a risolvere i problemi alla portata di tutti, prima di arrivare a protestare contro un progetto di riforma che è già al Senato”.
martedì 23 novembre 2010
Intervista a Elio
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Elio è Gian Burrasca. Lo spettacolo diretto da Lina Wertmuller che domani sera concluderà al Morlacchi l’edizione 2010 di Immaginario Festival si intitola così, ma il concetto è un po’ riduttivo. Perché Elio, semmai, è anche Gian Burrasca. Nello spettacolo, innanzitutto, dove, accompagnato dal suo quintetto di musicisti provetti, interpreta tutti i personaggi principali della storia scritta da Vamba cento anni fa e passa. E poi, certo, fuori dallo spettacolo. Basta accendere la tv, fare un giro su internet: Elio di qua, Elio di là. A teatro con la Wertmuller, a X-Factor, ancora a teatro con Fu…turisti. Lo soffrirà, un po’, lo stress?
“Di certo sono tante cose”, dice lui. “Ma è una mia scelta, non posso farne a meno. D’altronde ci sono abituato da quando ero piccolo. La scuola, la musica, l’università, facevo sempre due o tre cose contestualmente. Ma tra un mese stacco e mi prendo un po’ di riposo”.
Già martedì si conclude la tua prima esperienza da giudice di X-Factor. “Vado perché è uno dei pochi modi per parlare di musica in tv, e le cose vanno cambiate dall’interno”, avevi più o meno detto all’inizio. Ora che siamo quasi alla fine credi di esserci riuscito, a cambiare un po’ le cose?
“È chiaro che non si cambia tutto in un attimo. Però anche solo a guardare i cantanti della mia squadra credo che qualcosa lo abbiamo fatto. Uno come Nevruz, per esempio, non s’era mai visto prima. Piaccia o non piaccia, s’è imposto. E grazie a lui siamo riusciti a portare in prima serata un pezzo degli Area, Ivan Graziani, Rino Gaetano. Il Balletto di Bronzo, di cui non si parlava da quarant’anni. Addirittura una canzone tratta da un film di Pasolini. E poi anche Nathalie va forte. Pure con lei vediamo qualcosa di nuovo. Ha cantato Joni Mitchell, il suo inedito è ottimo. Pare che si sia scoperto improvvisamente che in televisione si possono cantare anche canzoni belle”.
E un sondaggio fatto da Swg per Donna Moderna rivela che sei il giudice più apprezzato.
“Non so quanto sia attendibile. Secondo me, per esempio, il più amato è Mara. E in sé mi interessa poco, ovvio. Però si tratta di un segnale: non è vero ciò che dicono, il pubblico vuole la qualità”.
Lo rifarai, X-Factor?
“Prima bisogna vedere se lo rifà la Rai. Coi tempi che corrono, coi soldi che mancano, ho i miei seri dubbi. Detto questo, se lo rifanno, lo rifaccio anch’io. L’esperienza m’è piaciuta. Specie nelle ultime due settimane”.
In tv, comunque, ogni tanto riesci ad andarci anche fuori da X-Factor. Dalla Dandini a Parla con me, per esempio. Le vostre parodie musicali sono geniali. Prendi il Waka Waka-Bunga Bunga. Uno vi immagina la mattina che leggete i giornali e decidete che canzone rifare, e come rifarla. E la sera, il pezzo è già pronto, e perfetto. Ma come ci riuscite?
“Poche ore prima della trasmissione ci sediamo con gli autori, vediamo cosa dice l’attualità e ci mettiamo a lavorare sulla canzone. E il Waka Waka non era la cosa migliore che abbiamo fatto, credo. Semplicemente, l’argomento era sulla bocca di tutti, per cui ha avuto grande successo”.
Capitolo Gian Burrasca. Come nasce l’idea?
“Sei o setta anni fa recitavo in uno spettacolo teatrale della Wertmuller. A un certo punto, parlando, lei mi rivela che non solo era stata la regista dello sceneggiato tv con la Pavone, ma aveva scritto anche tutte le canzoni, musicate dal grandissimo Nino Rota. Superato lo shock, ho subito avuto l’idea di uno spettacolo in cui si cantassero tutti i brani insieme. Dopo qualche anno l’ho proposto a Lina, e lei ha accettato con entusiasmo. A giudicare dal pubblico che viene a vederci, da quanto è e da quanto è coinvolto e felice, funziona. È un’ulteriore conferma del fatto che al pubblico piacciono le cose belle. Anzi, le vuole. A noi sta proporle in modo appetibile. Restando sul gastronomico, diciamo che non basta usare ingredienti buoni. Bisogna cucinarli e servirli nel modo giusto. È quel che io cerco di fare”.
Ma c’è più Vamba o più Rita Pavone, nel tuo Giannino Stoppani?
“Direi un terzo, un terzo e un terzo. C’è Vamba e c’è la Pavone. Ma c’è anche un po’ di mio”.
Tra pochi mesi fai cinquant’anni. Ci pensi già?
“Molto. E non è per niente bello. Ma mi consolo pensando che quando ero piccolo uno di cinquant’anni era quasi un vecchio. Ora a cinquant’anni si possono fare cose impensabili. E poi, se c’è chi a settantaquattro va ancora a donne – e quante!-, c’è speranza anche per il futuro”.
giovedì 18 novembre 2010
Intervista a Mario Martone
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Noi credevamo è un caso di mercato cinematografico. Perché non capita spesso che sia il pubblico a decidere così direttamente e concretamente le sorti di un film. È uscito in trenta copie, in pochi giorni ha fatto il botto, con code ai botteghini e cinema che non sanno dove mettere la gente, e così la casa di distribuzione deve correre ai ripari. Risultato: già nel fine settimana ne verranno messe in circolazione molte altre, di copie. Il mercato non ne giustificava più di trenta, dicevano alla 01, società della scuderia Rai Cinema. Mario Martone, col suo film sul Risorgimento, il mercato l’ha sfidato, e ne è uscito vincitore.
Stasera Martone sarà a Perugia, ospite di Immaginario Festival. Presenterà Noi credevamo allo Zenith, alle 20.30, insieme a Enrico Ghezzi e all’attrice Francesca Inaudi. All’aumento delle copie reagisce con soddisfazione, mica con rabbia.
“Ci mancherebbe. D’altronde la storia di questo film è stata lunghissima, e tormentata. Ci siamo sempre mossi tra mille difficoltà. Tutti: io, gli attori, la troupe. Abbiamo voluto tenere duro, nonostante le circostanze, nonostante ogni tanto arrivasse puntualmente qualcuno a dirci di lasciar perdere, che i soldi non bastavano, che non si poteva più. Non abbiamo mollato, ed eccoci qua. Quest’ultimo scoglio della distribuzione è una cosa quasi fisiologica”.
Ma era davvero così difficile rendersi conto che trenta copie non potevano bastare?
“Io quelli della Rai li capisco. In effetti, sul mercato non avevano tutti i torti. Però è successa questa cosa bellissima, questo ribaltamento messo in atto dagli spettatori. È stato una sorta di allargamento di quel ‘noi’ che a cerchi concentrici s’è esteso da chi il film l’ha ideato a chi l’ha realizzato, e infine a loro. E c’è una cosa in più che voglio dire”.
Prego.
“Si tratta di un segnale utile e importante per tutti coloro che fanno cinema e teatro senza volersi piegare agli standard, al commerciale. A volte il coraggio viene piegato”.
Riesce a spiegarsela, però, questa reazione del pubblico? Il film sarà sicuramente bello, ma altrettanto sicuramente non basta che un film sia bello per ottenere un successo del genere.
“Certo. Io butto là un paio di elementi. Innanzitutto, si tratta di un film corale, con tantissimi attori di spessore. Sembra voler dir poco, e invece sono sicuro che la gente abbia proprio il gusto di andare a vederli tutti insieme. Poi c’è il tema trattato. La storia e la nascita del nostro Paese, evidentemente, interessano a molti, checché se ne dica. In questo momento, poi”.
Noi credevamo è un film che ha diretto da uomo del Sud, inevitabilmente. Crede che sarebbe stato diverso se l’avesse fatto da uomo del Nord?
“Senz’altro. Ma vede, l’importante è non cadere nella semplificazione del rapporto Nord/Sud. Nel film si vede l’impatto dell’esercito piemontese sulle masse, emerge l’idea dell’Unità d’Italia come annessione del Meridione. Allo stesso tempo si mostrano i garibaldini come un coro di dialetti diversi, un’autentica ipotesi di popolo. Insomma, si sviscera la questione dal punto di vista politico, non macchiettistico, o addirittura razziale. Io sono convinto che Nord e Sud si possano capire, si possano amare. Io amo il Nord, moltissimo. Esiste un sentimento diffuso secondo cui il bello dell’Italia sta proprio nelle sue diversità. Quanto al Risorgimento, ripeto, il problema fu politico, il problema era contrapporre un’ipotesi repubblicana a quella, poi concretizzatasi, monarchico-autoritaria. La chiave Nord-Sud non basta”.
venerdì 12 novembre 2010
Intervista a Tommaso Cerasuolo - Perturbazione
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Ah, i Perturbazione. Grande band. Pop-rock garbato e intelligente, merce rara davvero dalle nostre parti. Sabato sera suonano allo Skylab di Terni, che tra l’altro è pure un gran bel posto per sentirsi un concerto. Il tour segue Del nostro tempo rubato, quinto disco da studio della band piemontese uscito la scorsa primavera, che segna il ritorno a una etichetta indipendente (la Santeria) dopo la tribolata esperienza con la Emi, durata non a caso solo il tempo di Pianissimo Fortissimo del 2007. Un disco doppio, composto da ventiquattro brani. Roba da pazzi, quasi. Ma basta ascoltarlo per capire perché i Perturbazione non hanno voluto scartare neanche una canzone: sono tutte ottime. E soprattutto sembrano tutte urgenti, necessarie.
“È così”, dice il cantante Tommaso Cerasuolo. “Negli ultimi lavori ci eravamo molto chiusi in noi stessi. C’era tutta una serie di veti reciproci che aveva fatto venire fuori un suono molto ‘medio’, quasi un prototipo del ‘suono Perturbazione’. In ogni caso, una roba molto arrotondata. Così a un certo punto ci siamo detti che volevamo sentirci più liberi. Che volevamo più spigoli. Quando ci dedicavamo ai progetti paralleli, ci riuscivamo, e allora perché non avremmo dovuto con i Perturbazione? È stato un periodo lungo, in cui abbiamo rivisto il nostro modo di comporre. Prima i testi li scrivevamo quasi solo io e Gigi (Giancursi, il chitarrista, ndr), stavolta c’hanno messo le mani tutti. Così come per le melodie. E il risultato ci soddisfa molto”.
Certo che un disco doppio la Emi ve l’avrebbe fatto fare difficilmente.
“Non lo so. Sai, il problema con loro è stato tutto nel modo di lavorare. C’era questa atmosfera costante del ‘c’è la crisi’, ‘tutto va male’, sempre a fasciarsi la testa. Non ci piaceva. E a loro, evidentemente, non piacevamo troppo noi. Ma va bene così. Detto questo, non credo che l’indipendenza sia una bandiera da portare, un ghetto in cui rinchiudersi. Non ci dispiacerebbe raggiungere un pubblico più ampio. Ma non ad ogni condizione”.
Quando nel 2002 uscì In Circolo la parola “indie” in Italia faceva rima quasi esclusivamente con “rock”. Quello ruvido di Afterhours e Marlene Kuntz, quello elettronico dei Subsonica. Il vostro disco fu un caso isolato. Oggi, si sente molta più roba simile al vostro pop-rock, per usare un’etichetta che in due parole possa identificare la vostra musica. Cosa è cambiato?
“Guarda. Innanzitutto la definizione pop-rock mi piace. Perché noi vogliamo essere rock nella misura in cui si tratta di essere rivoluzionari nella quotidianità. Ma vogliamo essere anche pop, popolari, arrivare alla gente. Quanto al fiorire di una nuova scena indie, la questione è complessa. Sicuramente c’è un ricambio generazionale naturale. E poi l’emergere di tutti questi cantautori può dipendere anche dal fatto che tener su una band, economicamente, è sempre più difficile. Infine, credo che i tempi siano un po’ più duri per tutti, rispetto a dieci, vent’anni fa. È normale che un registro che parli più all’intimità colga nel segno”.
Non a caso avete chiamato Dente a cantare nel vostro Bungiorno Buonafortuna.
“Già. Lo abbiamo conosciuto un paio di anni fa a Salerno, e siamo diventati subito amici. Quando abbiamo scritto il pezzo ci è sembrato che l’ultima parte, questa carrellata di elementi tra empatia e grottesco, fosse ideale per la sua poetica e la sua voce. Quando lo abbiamo chiamato ha preso un treno ed è venuto. Proviamo, ha detto, e ha funzionato”.
Ultima cosa. L’Italia è piena di giovani band che cantano in inglese. Voi avete cominciato così, ma, comprensibilmente, il successo lo avete ottenuto passando all’italiano. Come è avvenuto il passaggio?
“È stato un processo lungo. Quando sei giovane è normale cominciare dall’inglese, per la roba che ascolti tutto il giorno. Poi maturi, e capisci quanto è necessario comunicare con le persone che hai davanti. I gruppi italiani che continuano a fare musica in inglese dopo anni e anni, senza mai provare a mettersi in gioco andando a suonare all’estero, un po’ mi mettono tristezza. Dovrebbero avere la voglia di vedere se vengono capiti, accettati, rifiutati. E invece no. Io per esempio stimo molto Marco Fasolo, dei Jennifer Gentle, anche se non amo molto la musica che fa. Si fa un mazzo così per portare avanti il suo progetto, le canzoni sono in inglese ma va sempre in tournee in America, ormai fa parte a pieno titolo di una certa scena. Detto questo, chissà che prima o poi non lo rifacciamo, un disco in inglese. Ma solo se potremo promuoverlo bene fuori dall’Italia, solo se potremo andare a sputtanarci in giro per il mondo”.
lunedì 2 agosto 2010
I Baustelle a Spoleto
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Raccontatelo a qualcun altro che è il ventisette di luglio. Noi che stasera siamo venuti a sentire i Baustelle a Spoleto lo sappiamo che non è vero. Per piovere non piove, anche se l’ha fatto per un buon pezzo di pomeriggio, ma c’è un’aria gelida che ti morde la faccia, e il vento che s’alza ogni tanto ti entra nel profondo delle ossa. Con questo freddo il concerto si svolge in un clima surreale, lo patisce la gente e lo patiscono pure i musicisti sul palco, anche se la bella Rachele Bastreghi, nel suo tubino a righe molto Sixties che gli lascia scoperti molti centimetri quadrati di pelle, non fa una piega.
Gli altri sono tanti, per trattarsi dei Baustelle, visto che al trio reduce della formazione originale – Rachele, appunto, più Francesco Bianconi e Claudio Brasini – se ne aggiungono ben cinque, di musicisti: basso, batteria, chitarra, tastiere e fiati. Una piccola orchestra, insomma. Tutta un’altra dimensione rispetto al minimalismo degli esordi, quando dal vivo, in effetti, la band toscana faticava non poco a reggere i livelli raggiunti in studio. Ma oggi sono in otto, là sopra, e allora stiamo a vedere come se la cavano.
Al terzo giro tocca già a Le rane, il pezzo più trascinante del nuovo disco, non a caso scelto come secondo singolo e con un bel video in rotazione già da un po’, e in un batter d’occhio la platea si disfa e tutti, o quasi tutti, s’ammucchiano sotto il palcoscenico a ballare. “Avete fatto bene, a star seduti faceva troppo freddo”, dirà subito dopo Bianconi. Che del terzetto sembra quello più in forma. Canzone dopo canzone dimostra che nel tempo non è cresciuta solo la qualità della sua scrittura, ma anche la sua capacità di giostrare puree dal vivo i registri di una voce bella, baritonale e complicata. Forse ha studiato meno lady Bastreghi, invece, che se quando canta nei dischi riesce a costituire un valore aggiunto indiscutibile alle canzoni dei Baustelle, in versione live, alle prese con le sue tracce vocali sempre parecchio impegnative, appare il punto debole del gruppo. Brasini, dall’altra parte, più o meno fa il suo, mentre l’affiatamento dell’ensemble allargato si manifesta solo a fasi alterne.
Però la gente, comunque tanta e comunque entusiasta, non ci fa troppo caso, canta le canzoni a memoria e reclama a gran voce quelle vecchie, e alla fine, “perché ce la chiedete sempre da subito e a noi piace essere un po’ cattivi”, viene accontentata con una potente Gomma, classico pescato dall’esordio Sussidiario illustrato della giovinezza del 2000 che dopo meno di due ore chiude degnamente il concerto. Questa notte di un luglio travestito da novembre ribadisce il concetto: i Baustelle, senz’altro tra i migliori autori e interpreti di canzoni della loro generazione, li apprezzi di più se li ascolti su disco. Freddo o non freddo.
sabato 8 maggio 2010
Il blog dei Mondiali
mercoledì 14 aprile 2010
vicious
venerdì 5 febbraio 2010
la nausea
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sabato 16 gennaio 2010
Top Ten - I migliori concerti degli anni Zero
A sorpresa, un'altra classifica. Mi ci ha trascinato il caso, ma tant'è.
2. Radiohead – Firenze (Piazzale Michelangelo) – 08- 07-2003
3. Rem – Perugia (Stadio S.Giuliana) – 20-07-2008
4. Manu Chao (aka Atomic Pardalets) – Barcelona (Salamandra) – 16 (?)-01-2003
5. Patti Smith – Terni (Teatro Verdi) – 16-02-2002
6. Bandabardò – Perugia (Cantiere 21) – 2001
7. Bob Dylan – Perugia (Stadio S.Giuliana) – 25-07-2001
8. 24 Grana – Castiglione del Lago (La Darsena) – 08-06-2002
9. Subsonica – Perugia (PalaEvangelisti)– 12-04-2002
10. Counting Crows – Milano (Alcatraz) – 27-03-2000
(Daniele Silvestri – Firenze (Stazione Leopolda) – 24-05-2002, Francesco De Gregori – Spoleto (Piazza Duomo) – 06-09-2008, Proiettili Buoni – Castiglione del Lago (La Darsena) – 27-06-2009, Pearl Jam – Pistoia (Piazza Duomo) – 20-09-2006, Afterhours/Donà/Parente/Africa Unite – Cursi (Cava dei Cursi) – 05-08-2003, Daunbailò – Castigione del Lago (La Darsena) – 2004, Ben Harper – Bologna (Arena Parco Nord) – 01-06-2003, Cristina Donà – Castiglione del Lago (La Darsena) – 30-05-2008 , Califone/Micah P. Hinson – Roma (Circolo degli Artisti) – 08-02-2007)