mercoledì 28 dicembre 2011

Top Ten - I migliori romanzi del 2011


L'ultima classifica, la più difficile. Perché leggere libri è più faticoso che ascoltare dischi o andare a concerti, e capirli o apprezzarli - non essendoci, di solito o perlomeno a breve, una seconda possibilità - lo è ancora di più. Perché leggere meno libri di quanti si vorrebbe è inevitabile, e allora chissà quanti altri libri migliori dei dieci che trovate qua sotto saranno usciti nel 2011 in Italia.
Detto ciò, io la mia classifica la faccio. Con tutte le riserve del caso, ecco i dieci romanzi che più mi sono piaciuti quest'anno.

1- Libertà - Jonathan Franzen (Einaudi, 622 pagine, 22 euro)

2- Nemesi - Philip Roth (Einaudi, 184 pagine, 19 euro)

3- Il rifugio magico - Norman Manea (Il Saggiatore, 372 pagine, 19.50 euro)

4- La fine - Salvatore Scibona (66th and 2nd, 390 pagine, 20 euro)

5- HHhH - Laurent Binet (Einaudi, 346 pagine, 20 euro)

6- Settanta acrilico trenta lana - Viola di Grado (e/o, 190 pagine, 16 euro)

7- L'evoluzione di Bruno Littlemore - Benjamin Hale (Ponte alle Grazie, 560 pagine, 21 euro)

8- Morte di un biografo - Santiago Gamboa (e/o, 464 pagine, 19.50 euro)

9- Bersaglio notturno - Ricardo Piglia (Feltrinelli, 260 pagine, 16 euro)

10- Le cose che non vogliamo più - Cynan Jones (Isbn, 176 pagine, 17 euro)

venerdì 23 dicembre 2011

Top Ten - I migliori concerti del 2011



E dopo i dischi, i concerti. Per i quali vale ancora di più il discorso della chimica incidentale: io, quelli sul palco, gli altri tutto intorno, lì e in quel preciso momento.

1- Sufjan Stevens - Ferrara (Teatro Comunale) - 24 maggio

2- Bobo Rondelli - Perugia (Teatro Pavone) - 25 febbraio

3- Anna Calvi - Bologna (Locomotiv) - 9 aprile

4- John Grant - Firenze (Sala Vanni) - 13 novembre

5- Steve Wynn - Brisighella (Piazza Carducci) - 9 agosto

6- Cristina Donà - Perugia (Teatro Morlacchi) - 6 maggio

7- Brunori Sas - San Gemini (Piazza Palazzo Vecchio) - 27 agosto

8- Fast Animals and Slow Kids - Perugia (Norman) - 22 ottobre

9- Jang Senato - Perugia (Loop Cafè) - 12 marzo

10- Marianne Faithfull - Perugia (Auditorium San Francesco) - 24 luglio

martedì 20 dicembre 2011

Top Ten - I migliori album del 2011




Le hanno fatte già tutti, le classifiche dei migliori dischi del 2011, e allora le faccio anch'io, in anticipo di qualche giorno sui tempi rispetto al solito.
Quest'anno è uscita molta ottima roba, e la scelta è stata piuttosto difficile. Ovviamente vi ricordo che questa lista non ha la pretesa di essere la lista. C'è molto di quel che considero di indiscutibile valore assoluto, ma c'è anche molto di mio.
E come già un anno fa, devo recuperare un disco fantastico sfuggitomi nel 2011: è Queen of Denmark, di John Grant (PLAY).

In coda, poi, troverete quelli che secondo me sono i tre migliori dischi italiani di quest'anno. A dieci non avrei proprio la forza di arrivarci.

Andiamo, dunque.

1- Anna Calvi - Anna Calvi   PLAY

2- The Whole Love - Wilco   PLAY

3- The King of Limbs - Radiohead   PLAY

4- Build a Rocket Boys! - Elbow   PLAY

5- Nine Types of Light - Tv on the Radio   PLAY

6- Strange Mercy - St. Vincent   PLAY

7- The High Country - Richmond Fontaine   PLAY

8- Father, Son, Holy Ghost - Girls   PLAY

9- Wolfroy Goes to Town - Bonnie Prince Billy   PLAY

10- The King is Dead - Decemberists   PLAY

Rimangono fuori dischi più che buoni. Su tutti Bill Callahan. E non posso non fare cenno agli Rem, che nel 2011 hanno chiuso la loro gloriosa storia con un album di inediti più che dignitoso e una raccolta celebrativa ben pensata.

Poi, come detto, gli italiani.

1- S.C.O.T.C.H. - Daniele Silvestri   PLAY

2- Sette pietre per tenere il diavolo a bada - Cesare Basile   PLAY

3- Torno a casa a piedi - Cristina Donà   PLAY


E una segnalazione tra gli indipendenti.


Cavalli, dei giovanissimi Fast Animals ans Slow Kids   PLAY

lunedì 28 novembre 2011

Il Dozzini che manca


C'è un mondo, là fuori, che a quanto pare non riesco a fare a meno di preferire a questo piccolo vecchio blog. E per là fuori mica intendo la vita reale: intendo facebook, principalmente, l'altro mio blog sul pallone, adesso pure twitter.

Ma almeno due parole sul romanzo che io ho scritto e Lantana Editore s'è preso la briga di pubblicare giusto un mesetto fa adesso le devo spendere. Si intitola L'uomo che manca, e ha una copertina fantastica. Qua troverete qualche elemento in più, se vi interessa.

E prima o poi tornerò a darmi un po' più da fare anche qui, immagino.

(Eccola, la copertina:)



venerdì 2 settembre 2011

Intervista a Elio - bis


L'intervista a Elio uscita sul Corriere dell'Umbria di venerdì 2 settembre 2011.


Il Caffè Latino è un locale parecchio fashion che s'affaccia sulla placidità delle sei del pomeriggio di piazza Matteotti, nel cuore di Città di Castello. C'è un tizio in pantaloni corti seduto su un divanetto all'angolo del gazebo che sta sfogliando il programma del Festival delle Nazioni. Fischietta, e aspetta il suo tè caldo, accerchiato da una piccola corte di giornalisti, fotografi e addetti stampa. Tre o quattro ragazzini che stanno attraversando la piazza si fermano a guardare, si danno di gomito. Forse l'hanno visto in televisione, forse lo conoscono per il pezzo di storia della musica pop italiana che ha scritto insieme alla band di cui è il frontman da trent'anni. Evidentemente sono eccitati da quella vista, ma non stupiti. Lo sanno di sicuro anche loro che da lì a poche ore quel tizio farà uno spettacolo in città, proprio per il Festival. Magari loro non c'andranno, perché a sedici anni è difficile che uno finisca in un teatro a vedere Gian Burrasca, ma questo vuol dire poco. Quello è Elio, dicono, Elio che aspetta un tè in un bar di Città di Castello. Poi il tè arriva, lui se lo beve, e in un paio di minuti è pronto. Intervista. Collettiva.

Prima la televisione, poi la carta stampata: tutti, uno dopo l'altro, parlano, tutti possono ascoltare. E voi, adesso, leggere. Per cominciare citano Wikipedia e gli chiedono cosa è cambiato dai tempi di John Holmes. "Venti chili in più", dice lui. Poi sembra farsi serio: "Artista? Musicista? Giudice? Io in realtà sono nient'altro che un uomo del fare". Come non detto. "Ma soprattutto del fare bene, o almeno del tentare di fare bene le cose", e qui è serio davvero. E' un concetto su cui insiste, e non da oggi: "La gente dà sempre meno valore alla capacità di far bene le cose. Vale per chi fa musica, chi fa teatro, chi fa televisione".

Lui in effetti ne fa tante, e tutte egregiamente. Magari molta gente lo identifica con l'Elio giudice di X-Factor e nulla più, ma poco male. "I preparativi dell'avventura su Sky? Stanno andando bene. Morgan pare pure essere tornato in sé". Notiziona. Poi la politica. E' vero che non sei di sinistra, come titolava un paio di mesi fa Vanity Fair? "Sì e no. Voto la gente onesta, tutto qua. E questo centrodestra di certo non lo voterei mai. Anche se dall'altra parte... E' una bella lotta. Ma era grosso, il titolo?". Pare di sì. E l'Italia? Se quindici anni fa era la terra dei cachi oggi cos'è? "La terra dei cachi marci". Semplice. Quanto a Gian Burrasca, "ormai so che non è più solo una mia idea, ma che alla gente piace. È una certezza". E infatti la sera, a San Domenico, cinquecento persone. Poi precisa: "Tutti a chiedermi quanto si somigliano Elio e Gian Burrasca. Ma guardate che il vero Gian Burrasca è Lina Wertmuller (regista dello spettacolo, ndr)".

E ancora il baseball - "come mi piacerebbe tornare a commentare le partite" -, e la Milano di Pisapia. "Ancora non è successo niente. È adesso che il gioco si fa duro". Mangoni, ovviamente, aspetta una telefonata da Palazzo Marino. "Forte dei suoi 1.068 voti", dice Elio, pure qui serissimo, "si merita senz'altro un incarico di responsabilità. Un assessorato no, ma certamente una delega per occuparsi in qualche modo di cultura". E se la Dandini trasloca a La 7? "Magari la seguiamo. È una che ci fa fare quello che vogliamo". Ultima cosa, dicci del nuovo disco degli Elio e le storie tese. "Ci stiamo lavorando. E se ci danno la direzione artistica o il Dopo Festival andiamo pure a San Remo".

sabato 16 luglio 2011

Intervista a Niccolò Fabi


L'intervista a Niccolò Fabi uscita sul Corriere dell'Umbria di sabato 16 luglio 2011.

Un tour da solo durato tutta la primavera. Poi di nuovo in giro, ma stavolta con la band, come sempre, come s’è abituato a fare in quasi vent’anni di carriera. In questo suo peregrinare domani Niccolò Fabi si ritrova a far tappa anche a Papiano, per uno degli appuntamenti più attesi dell’edizione 2011 di Musica per i Borghi.

“Il Solo Tour è stato un’esperienza bellissima”, dice. “Avventurosa. Perché non era un concerto comunemente inteso, con me sul palco a fare, voce e chitarra, le mie canzoni più famose. No, era uno spettacolo teatrale vero e proprio, con degli oggetti con cui interagire, degli strumenti, una loop station per campionare i suoni. Un regista. Uno spettacolo articolato, impegnativo dal punto di vista tecnico ed emotivo. E sia per l’adesione e la partecipazione del pubblico che per la resa è stata forse la cosa più potente che abbia mai fatto”.

E adesso sei nel pieno del tour estivo.

“Già. Porta un clima più leggero, c’è il gioco del suonare insieme, la maniera di condividere i concerti con gli altri, sul palco, coi miei amici. Bob (il cantautore e chitarrista Roberto Angelini, ndr), per esempio, è una presenza continua, una colonna. Lui non manca mai, e poi ci sono dieci dodici musicisti che si alternano, tutta gente dell’Angelo Mai, questo spazio fantastico dove si incontrano artisti di ogni sorta, questa fucina inesauribile di idee e di talenti”.

A proposito di amici, nel nuovo disco di Daniele Silvestri, uscito pochi mesi fa, c’è un bellissimo pezzo che cantate insieme. Com’è nata Sornione?

“Ci siamo ritrovati dopo anni passati parallelamente, come accade in molti rapporti. Io e Daniele eravamo stati molto vicini nei primi anni Novanta, quando abbiamo cominciato. Eravamo molto giovani, e abbiamo condiviso parecchie cose. Poi, per un po’, abbiamo imboccato strade differenti, e la nostra vicinanza è rimasta tale solo negli articoli di giornale in cui ogni tanto si evocava la cosiddetta scuola romana. Quindi, e pure questo dipende dall’evoluzione naturale delle esistenze, ci siamo riavvicinati. In particolare dopo il concerto del 30 agosto scorso a Mazzano Romano. Passato un po’ di tempo da allora, Daniele è venuto da me e m’ha fatto ascoltare questa canzone incompleta, chiedendomi se mi andava di dargli una mano a portarla a termine. E così, ecco Sornione”.

Cosa avverti di diverso tra la tua generazione e quella che muove i suoi primi passi nella musica oggi? A Roma, soprattutto, visto che di scuola romana ormai non si parla più già da tempo.

“Io penso che la mia generazione abbia avuto la fortuna di prendere l’ultimo treno buono. Anche allora si intravedeva l’inizio del tramonto della discografia, ma c’era ancora chi riusciva a strappare un contratto per cinque dischi. Cosa inimmaginabile, adesso. Oggi i ragazzi che cominciano a fare musica sono più disillusi, ma hanno le idee molto più chiare di noi: c’è chi già sa che vuole finire a X-Factor, chi ad Amici, chi invece vuole entrare nei circuiti indie. E poi, per un cantautore è più difficile che per una band che fa rock. Perché un cantautore ha bisogno di un disco, ha bisogno che la gente ascolti le sue canzoni con calma, anche nell’intimo e non solo dal vivo. Detto questo, Roma storicamente ha avuto grande abbondanza di cantautori, e ancora ne ha. Prendi quelli che passano al Mai, ma non solo quelli. Magari adesso pagano un po’ l’attenzione montata intorno alla solita scuola romana di quasi vent’anni fa. Sono i cicli della vita”.

Hai detto che se c’è un musicista con cui ti piacerebbe suonare, oggi, questo musicista è Sufjan Stevens. Perché?

“È uno che rappresenta al meglio un certo modo di rapportarsi liberamente alla canzone partendo da canoni folk. In America ce ne sono parecchi. Lui, in particolare, sa mescolare egregiamente la tradizione con elementi di orchestralità, la malinconia con l’euforia. E io sento di non essere troppo lontano da questo suo spirito”.

mercoledì 4 maggio 2011

Intervista a Cristina Donà

L'intervista a Cristina Donà uscita sul Corriere dell'Umbria di mercoledì 4 maggio 2011.


Sembra incredibile, ma Cristina Donà a Perugia non c’ha mai suonato. Quindici anni di carriera, cinque dischi, la reputazione meritata di cantautrice raffinata e potente, eppure è così. Una specie di tabù, che verrà sfatato venerdì, per il gran finale della seconda edizione degli Incantevoli, la provvidenziale rassegna della Musical Box che ha dato un’anima musicale a questo primo scorcio di 2011 perugino.

“Finalmente”, dice lei. “E poi pare che il Morlacchi sia uno dei teatri più belli d’Italia”. Scorre i nomi di chi l’ha preceduta nel programma della manifestazione, e s’accende. “Con Brondi suonano due dei miei musicisti storici. Bobo Rondelli, poi, lo seguo da una vita. È un pazzo furioso con classe da vendere”.

Beh, la classe non manca neanche a lei. Prendete il disco che ha pubblicato il gennaio scorso. Torno a casa a piedi è la splendida prova di maturità di un’artista che non ha mai sbagliato un colpo. E che oggi, diventata mamma, forse ha scritto la migliore raccolta di canzoni della sua carriera.

“Sì, a distanza di quattro mesi dalla sua uscita il disco mi piace ancora molto. Anche se come capita sempre dal vivo alcune canzoni risultano superiori alla versione da studio. E sì che non abbiamo avuto nemmeno troppo tempo per provarle. Fino a fine febbraio sono stata impegnata con una promozione incalzante, e col bimbo piccolo proprio non ce la facevo a far partire anche il tour. E così la prima data è stata il 25 marzo”.

Quanto ti pesa, lasciare tuo figlio a casa?

“Tantissimo. Già è difficile, e delicato, abituare il bambino all’idea che la mamma fa un mestiere del genere. Per me, poi, è come una doppia bretella. Da una parte c’è il cuore, il dolore di quando devi separarti dalla cosa più straordinaria che ti sia capitata nella vita. Dall’altra però c’è la musica, ci sono i concerti: suonare è un’altra parte di cuore, per me, non posso farne a meno. E quando poi sono sul palco, in ogni caso, sono contenta”.

Sarai tu, insieme a Daniele Silvestri, a chiudere la prima edizione salentina di Italia Wave, a luglio. L’addio alla Toscana, sede storica di IW, non è una buona notizia per il circuito dei grandi festival italiani. Che segnano il passo un po’ dappertutto. Tu sei stata tra i protagonisti del Tora Tora, il festival itinerante di Manuel Agnelli e della Mescal che girava la Penisola nei primi anni Zero. Cos’è cambiato da allora?

“Indubbiamente è un periodo difficile. Ci sono Paesi che sull’arte e sulla cultura adesso investono ancora di più, perché pensano che siano un formidabile motore di sviluppo. In Italia purtroppo non è così. Secondo me c’è dietro un progetto di appiattimento e imbarbarimento, perché se è imbarbarita la gente è più facile da gestire. Manuel dice che si tratta più che altro di inettitudine. Io dico l’una e l’altra cosa. E a destra e a sinistra, tranne poche eccezioni, la vedono più o meno alla stessa maniera”.

Ma tu pensi che per certi versi si sia perso anche lo spirito di quegli anni?

“Non credo. Io non sono mai stata un’organizzatrice, mi sono sempre accodata. La mia voglia di fare le cose insieme agli altri è testimoniata più che altro dalle tante collaborazioni di cui riempio i miei dischi. Però Manuel, ad esempio, ha sempre creduto che l’unione fa la forza. Lo dimostra l’operazione che ha fatto a Sanremo (nel 2009, con la conseguente compilation di musicisti indie Il Paese è reale, ndr). E credo che stia provando a rimettere insieme il Tora Tora”.

Il live, dicevi, è una dimensione essenziale, per te. Un disco dal vivo, però, ti manca.

“Ci sto pensando. Ne discuto da tempo col mio manager, lui dice che nell’era di YouTube già si trova tutto in rete, che non ha senso. Però la qualità è quella che è, un disco, registrato per bene, è una cosa diversa. E poi mi dicono tutti che rendo più dal vivo che in studio. Chissà, magari prima o poi il live riesco a farlo”.

giovedì 31 marzo 2011

Intervista a Vasco Brondi - Le luci della centrale elettrica

L'intervista a Vasco Brondi, alias Le luci della centrale elettrica, uscita sul Corriere dell'Umbria di giovedì 31 marzo 2011.


La prima volta che è passato da Perugia aveva la chitarra a tracolla e poco altro. Era un ragazzino, Vasco Brondi, che girava l’Italia in treno o con la sua vecchia Fiat Uno a metano. Lo precedeva una piccola fama sotterranea che un poco doveva anche al nome altisonante che aveva scelto per farsi conoscere e riconoscere come cantastorie. Le luci della centrale elettrica. Nome post-moderno, una bomba.

“Ci pensavo giusto ieri”, ricorda adesso. “Per quanto Perugia sia una città piccola, decentrata, l’ho toccata in ognuna delle fasi fondamentali del mio percorso. Prima venni al Loop, questo locale piccolissimo perso in una stradina del centro, con trenta persone davanti e Paolo Vinti a declamare. Passammo quasi tutta la cena a parlare di lui, io e Prinz. Poi, per il tour del primo disco, feci tappa all’Urban, con Giorgio Canali e gli altri. Cominciammo a suonare tardissimo, e il locale era zeppo di gente, e l’atmosfera così calda che non ricordo più nemmeno come finì quella notte. E infine, dopo il secondo disco, eccoci qua. Addirittura al Morlacchi”.

Al Morlacchi, già, per gli Incantevoli. L’appuntamento con Brondi di stasera è probabilmente il più atteso dell’intera manifestazione della Musical Box, il piccolo gioiello dell’ineffabile duo Piazzoli-Prinz. Un po’ la chiusura di un cerchio, per questo ragazzo ferrarese che canta e parla come un fiume in piena.

“È vero. Non era detta che riuscissimo a venire a Perugia. Questo è un tour che tocca tutti posti grandi, da mille persone. Poi è arrivata questa proposta, e l’abbiamo colta al volo. Tra l’altro, si tratta dell’unica data in un teatro. Infatti ho preparato qualcosa di diverso. Sarà sempre e comunque un concerto all’attacco, non è che per il fatto di essere in un teatro bisogna celebrare una messa, però è vero che il grado di attenzione e di concentrazione del pubblico sarà superiore rispetto al solito. Quindi ci scapperà qualche lettura, roba tratta dal mio libro e non solo. Più alcune canzoni di altri autori rimaneggiate ben bene”.

Dopo Canzoni da spiaggia deturpata tutti erano curiosi di vedere come sarebbe stato il tuo secondo disco. Con l’esordio avevi sparigliato le carte, avevi portato un elemento di rottura nel panorama indie italiano. Con che approccio ti sei accostato al tuo lavoro successivo?

“Con un approccio più semplice di quello degli ascoltatori. Semplicemente, ho fatto quello che mi veniva più naturale fare. Ai tempi del primo disco non m’ero nemmeno reso conto di essere così di rottura, anche perché non ascoltavo tutta la musica che per forza di cose mi ritrovo ad ascoltare adesso. E poi penso che chi da Per ora noi la chiameremo felicità si aspettasse una sorta di seconda opera prima, una rottura ulteriore, sbagliasse di grosso. Prendi gli altri, per esempio i Bachi da Pietra o i Massimo Volume. I loro nuovi dischi sono bellissimi, ma hanno la loro solita voce. Io da un disco voglio che mi assomigli, che mi rappresenti. Non è che mi metto lì a spremermi per fare uscire qualcosa di rivoluzionario. Non si tratta di un nuovo modello della Fiat o della Ford. Però è vero che coi primi due dischi e col libro, li chiamo Trilogia della Periferia, ho chiuso una pagina”.

E adesso?

“Non so ancora bene. Sicuramente ho delle idee sulla direzione da prendere. Ma è perché mi sento così, non è che sto a teorizzare. Certo, il prossimo disco sarà diverso, ma sarà comunque riconoscibile come un disco mio. Intanto quest’estate farò un altro tour, festival e tutto. Poi vedremo”.

sabato 19 marzo 2011

Intervista a Alberto Ferrari - Verdena


L'intervista ad Alberto Ferrari dei Verdena uscita sul Corriere dell'Umbria di venerdì 18 marzo 2011.

Un disco doppio che schizza subito al secondo posto nella classifica di vendite già di per sé è qualcosa di insolito. Se poi questo disco non è un greatest hits o comunque un’operazione smaccatamente commerciale, la cosa comincia a diventare sospetta. Insomma, cosa c’è dietro il successo clamoroso dei nuovi Verdena? Difficile dirlo. Bisognerebbe chiederlo alle centinaia di persone che hanno già comprato i biglietti per i due concerti che la band bergamasca terrà all’Urban di Perugia sabato e domenica. Date sold out da un pezzo, come molte altre del tour.

“Non c’era mai capitata una cosa del genere”, dice Alberto Ferrari, voce e chitarra della band. “I nostri dischi sono entrati più o meno sempre nelle top ten, ma mai nei primi tre. Mai al secondo posto, mai così in alto per così tanto tempo. Non riesco proprio a capirlo, il meccanismo che è scattato. So solo che ci fa un casino di piacere. Come mi fa piacere il fatto che disco dopo disco guadagniamo sempre più il rispetto della critica. All’inizio dicevano che non sapevamo neanche suonare, adesso tutti ad applaudirci”.

D’altronde la crescita dei Verdena negli anni è evidente. Però la decisione di mettere ben ventisette pezzi nel nuovo album Wow ha spiazzato molti. Come ci siete arrivati?

“Guarda, è un po’ strano. Noi scriviamo moltissimo. A un certo punto i pezzi erano novanta. E volevamo registrarli tutti. Poi, anche sotto le pressioni di chi ci stava intorno, abbiamo deciso di registrarne una trentina. Però eravamo affezionati a tutti, e li abbiamo tenuti. Abbiamo anche provato a metter su scalette differenti con quindici o sedici brani, ma non funzionava. Il disco si regge così. È quasi un pezzo unico, una specie di super-matrioska”.

Alla Universal, però, non avranno fatto salti di gioia.

“No. La guerra per il disco doppio è durata quindici giorni. All’inizio c’avevano detto che i vertici non erano per niente d’accordo, e hanno cercato di farci cambiare idea. Poi, ascolto dopo ascolto, anche loro si sono accorti che avevamo ragione”.

Tornando ai motivi del vostro boom, ci sarà anche il fatto che siete tra i pochi rockettari della vostra generazione? Negli ultimi anni c’è stato tutto questo fiorire di cantautori, la famigerata leva degli anni Zero, ma rock vero e proprio poco.

“Non c’avevo mai pensato, ma in effetti non sono molti quelli che sono emersi. E dire che secondo me ci sono ancora molte band che rockeggiano, qua a Bergamo è pieno. Prendi gli Spread, sono fortissimi. Però non fanno il salto”.

Quando avete cominciato eravate giovanissimi. E la vostra cultura musicale, inevitabilmente, ancora limitata. Quali sono stati i musicisti che v’hanno aperto orizzonti nuovi? Hai detto che recentemente hai ascoltato molto i Beach Boys, e in effetti in Wow è facile trovare degli echi wilsoniani.

“Sì, per questo album Wilson è stato una nuova chiave di lettura. Da tempo non facevo una scoperta che mi entusiasmasse così. In generale, da Requiem (il penultimo album, datato 2007, ndr) in qua abbiamo ascoltato molto Miles Davis, Charlie Parker, un sacco di jazz. E i Queen. Abbiamo voluto buttarci su roba nuova, avevamo assimilato troppo quel che sentivamo da giovani. E ci siamo resi conto che c’è ancora un sacco di musica che ci piace, in giro”.

E quanto al modo di comporre? Una volta oltre la formuletta strofa-ritornello-strofa non andavate, adesso è tutta un’altra storia.

“Assolutamente. Stiamo cambiando di brutto. Proviamo arrangiamenti e strutture sempre nuove. I ritornelli non riusciamo neanche più a trovarli. Anzi, le regole mi danno sempre più fastidio. L’unica cosa che rimane è la melodia. Da quella non mi schiodo. Saranno tutti i Beatles che ho ascoltato da piccolo. Ma chissà, magari un giorno faremo un disco senza traccia di melodia. Tipo i Pantera. O i Black Flag”.

Ma lo dice ridendo.