giovedì 18 novembre 2010

Intervista a Mario Martone


L'intervista a Mario Martone uscita sul Corriere dell'Umbria di oggi.
Martone stasera sarà ospite dell'Immaginario Festival. Presenterà il suo Noi credevamo allo Zenith, alle 20.30.


Noi credevamo è un caso di mercato cinematografico. Perché non capita spesso che sia il pubblico a decidere così direttamente e concretamente le sorti di un film. È uscito in trenta copie, in pochi giorni ha fatto il botto, con code ai botteghini e cinema che non sanno dove mettere la gente, e così la casa di distribuzione deve correre ai ripari. Risultato: già nel fine settimana ne verranno messe in circolazione molte altre, di copie. Il mercato non ne giustificava più di trenta, dicevano alla 01, società della scuderia Rai Cinema. Mario Martone, col suo film sul Risorgimento, il mercato l’ha sfidato, e ne è uscito vincitore.

Stasera Martone sarà a Perugia, ospite di Immaginario Festival. Presenterà Noi credevamo allo Zenith, alle 20.30, insieme a Enrico Ghezzi e all’attrice Francesca Inaudi. All’aumento delle copie reagisce con soddisfazione, mica con rabbia.

“Ci mancherebbe. D’altronde la storia di questo film è stata lunghissima, e tormentata. Ci siamo sempre mossi tra mille difficoltà. Tutti: io, gli attori, la troupe. Abbiamo voluto tenere duro, nonostante le circostanze, nonostante ogni tanto arrivasse puntualmente qualcuno a dirci di lasciar perdere, che i soldi non bastavano, che non si poteva più. Non abbiamo mollato, ed eccoci qua. Quest’ultimo scoglio della distribuzione è una cosa quasi fisiologica”.

Ma era davvero così difficile rendersi conto che trenta copie non potevano bastare?

“Io quelli della Rai li capisco. In effetti, sul mercato non avevano tutti i torti. Però è successa questa cosa bellissima, questo ribaltamento messo in atto dagli spettatori. È stato una sorta di allargamento di quel ‘noi’ che a cerchi concentrici s’è esteso da chi il film l’ha ideato a chi l’ha realizzato, e infine a loro. E c’è una cosa in più che voglio dire”.

Prego.

“Si tratta di un segnale utile e importante per tutti coloro che fanno cinema e teatro senza volersi piegare agli standard, al commerciale. A volte il coraggio viene piegato”.

Riesce a spiegarsela, però, questa reazione del pubblico? Il film sarà sicuramente bello, ma altrettanto sicuramente non basta che un film sia bello per ottenere un successo del genere.

“Certo. Io butto là un paio di elementi. Innanzitutto, si tratta di un film corale, con tantissimi attori di spessore. Sembra voler dir poco, e invece sono sicuro che la gente abbia proprio il gusto di andare a vederli tutti insieme. Poi c’è il tema trattato. La storia e la nascita del nostro Paese, evidentemente, interessano a molti, checché se ne dica. In questo momento, poi”.

Noi credevamo è un film che ha diretto da uomo del Sud, inevitabilmente. Crede che sarebbe stato diverso se l’avesse fatto da uomo del Nord?

“Senz’altro. Ma vede, l’importante è non cadere nella semplificazione del rapporto Nord/Sud. Nel film si vede l’impatto dell’esercito piemontese sulle masse, emerge l’idea dell’Unità d’Italia come annessione del Meridione. Allo stesso tempo si mostrano i garibaldini come un coro di dialetti diversi, un’autentica ipotesi di popolo. Insomma, si sviscera la questione dal punto di vista politico, non macchiettistico, o addirittura razziale. Io sono convinto che Nord e Sud si possano capire, si possano amare. Io amo il Nord, moltissimo. Esiste un sentimento diffuso secondo cui il bello dell’Italia sta proprio nelle sue diversità. Quanto al Risorgimento, ripeto, il problema fu politico, il problema era contrapporre un’ipotesi repubblicana a quella, poi concretizzatasi, monarchico-autoritaria. La chiave Nord-Sud non basta”.

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