venerdì 12 novembre 2010

Intervista a Tommaso Cerasuolo - Perturbazione


Di seguito pubblico la versione integrale dell'intervista a Tommaso Cerasuolo, cantante dei Perturbazione, uscita in forma ridotta sul Corriere dell'Umbria di oggi. Dove peraltro si dice che il concerto allo Skylab di Terni è stasera. Un grave refuso, di cui mi scuso. Il concerto, infatti, è domani, sabato 13 novembre.

Ah, i Perturbazione. Grande band. Pop-rock garbato e intelligente, merce rara davvero dalle nostre parti. Sabato sera suonano allo Skylab di Terni, che tra l’altro è pure un gran bel posto per sentirsi un concerto. Il tour segue Del nostro tempo rubato, quinto disco da studio della band piemontese uscito la scorsa primavera, che segna il ritorno a una etichetta indipendente (la Santeria) dopo la tribolata esperienza con la Emi, durata non a caso solo il tempo di Pianissimo Fortissimo del 2007. Un disco doppio, composto da ventiquattro brani. Roba da pazzi, quasi. Ma basta ascoltarlo per capire perché i Perturbazione non hanno voluto scartare neanche una canzone: sono tutte ottime. E soprattutto sembrano tutte urgenti, necessarie.

“È così”, dice il cantante Tommaso Cerasuolo. “Negli ultimi lavori ci eravamo molto chiusi in noi stessi. C’era tutta una serie di veti reciproci che aveva fatto venire fuori un suono molto ‘medio’, quasi un prototipo del ‘suono Perturbazione’. In ogni caso, una roba molto arrotondata. Così a un certo punto ci siamo detti che volevamo sentirci più liberi. Che volevamo più spigoli. Quando ci dedicavamo ai progetti paralleli, ci riuscivamo, e allora perché non avremmo dovuto con i Perturbazione? È stato un periodo lungo, in cui abbiamo rivisto il nostro modo di comporre. Prima i testi li scrivevamo quasi solo io e Gigi (Giancursi, il chitarrista, ndr), stavolta c’hanno messo le mani tutti. Così come per le melodie. E il risultato ci soddisfa molto”.

Certo che un disco doppio la Emi ve l’avrebbe fatto fare difficilmente.

“Non lo so. Sai, il problema con loro è stato tutto nel modo di lavorare. C’era questa atmosfera costante del ‘c’è la crisi’, ‘tutto va male’, sempre a fasciarsi la testa. Non ci piaceva. E a loro, evidentemente, non piacevamo troppo noi. Ma va bene così. Detto questo, non credo che l’indipendenza sia una bandiera da portare, un ghetto in cui rinchiudersi. Non ci dispiacerebbe raggiungere un pubblico più ampio. Ma non ad ogni condizione”.

Quando nel 2002 uscì In Circolo la parola “indie” in Italia faceva rima quasi esclusivamente con “rock”. Quello ruvido di Afterhours e Marlene Kuntz, quello elettronico dei Subsonica. Il vostro disco fu un caso isolato. Oggi, si sente molta più roba simile al vostro pop-rock, per usare un’etichetta che in due parole possa identificare la vostra musica. Cosa è cambiato?

“Guarda. Innanzitutto la definizione pop-rock mi piace. Perché noi vogliamo essere rock nella misura in cui si tratta di essere rivoluzionari nella quotidianità. Ma vogliamo essere anche pop, popolari, arrivare alla gente. Quanto al fiorire di una nuova scena indie, la questione è complessa. Sicuramente c’è un ricambio generazionale naturale. E poi l’emergere di tutti questi cantautori può dipendere anche dal fatto che tener su una band, economicamente, è sempre più difficile. Infine, credo che i tempi siano un po’ più duri per tutti, rispetto a dieci, vent’anni fa. È normale che un registro che parli più all’intimità colga nel segno”.

Non a caso avete chiamato Dente a cantare nel vostro Bungiorno Buonafortuna.

“Già. Lo abbiamo conosciuto un paio di anni fa a Salerno, e siamo diventati subito amici. Quando abbiamo scritto il pezzo ci è sembrato che l’ultima parte, questa carrellata di elementi tra empatia e grottesco, fosse ideale per la sua poetica e la sua voce. Quando lo abbiamo chiamato ha preso un treno ed è venuto. Proviamo, ha detto, e ha funzionato”.

Ultima cosa. L’Italia è piena di giovani band che cantano in inglese. Voi avete cominciato così, ma, comprensibilmente, il successo lo avete ottenuto passando all’italiano. Come è avvenuto il passaggio?

“È stato un processo lungo. Quando sei giovane è normale cominciare dall’inglese, per la roba che ascolti tutto il giorno. Poi maturi, e capisci quanto è necessario comunicare con le persone che hai davanti. I gruppi italiani che continuano a fare musica in inglese dopo anni e anni, senza mai provare a mettersi in gioco andando a suonare all’estero, un po’ mi mettono tristezza. Dovrebbero avere la voglia di vedere se vengono capiti, accettati, rifiutati. E invece no. Io per esempio stimo molto Marco Fasolo, dei Jennifer Gentle, anche se non amo molto la musica che fa. Si fa un mazzo così per portare avanti il suo progetto, le canzoni sono in inglese ma va sempre in tournee in America, ormai fa parte a pieno titolo di una certa scena. Detto questo, chissà che prima o poi non lo rifacciamo, un disco in inglese. Ma solo se potremo promuoverlo bene fuori dall’Italia, solo se potremo andare a sputtanarci in giro per il mondo”.

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